TACCUINO: L’isola di Amantanì, nel lago Titicaca

Certe cose partono da lontano, spesso dalla nascita o giù di lì. Forse avrei dovuto capire già da quello che disegnavo sui banchi di scuola alle elementari (navi e aerei in movimento verso lontane destinazioni, motociclette attrezzate per lunghi viaggi…) che non mi sarei fermato in quel piccolo paese sulle rive del lago.

La cosa che più mi affascinava era il mondo: mentre disegnavo mezzi di locomozione ero già partito anch’io… Invece di andare a giocare a calcio al campetto dell’oratorio, seguivo tracce e profumi nei boschi con il mio fido Dick. Invece della raccolta Panini del campionato di calcio, collezionavo le figurine de ‘Il mondo in casa’, oltre a tanti, tanti francobolli.

Naturalmente, con il passare degli anni, i confini delle mie esplorazioni si allargavano lasciando spazio a orizzonti via via sempre più ampi e affascinanti: prima le Alpi, Venezia, il sud d’Italia, compiuti i diciotto anni via via la Grecia, la Turchia, il Marocco, le Canarie, fino al grande sogno: l’America Latina. Partenza il giorno prima di Natale…

Portavo con me:

  • un biglietto Aeroflot valido un anno
  • il passaporto
  • un sacco a pelo
  • un diario
  • delle matite colorate
  • un po’ di denaro guadagnato raccogliendo uva e mele in Trentino
  • un maglioncino di lana colorato fatto a mano
  • un piccolo portafortuna regalatomi da una amica
  • e i miei vent’anni.

Verso il Titicaca

L’isola di Amantanì, situata sul versante peruviano del lago Titicaca, non sapevo nemmeno che esistesse… Ci sono arrivato così, portato dal vento, che ha avuto inizialmente la forma di un TIR che, sulla strada Panamericana, andava da Lima ad Arequipa. Avevo fatto l’autostop e mi sistemarono in modo precario sopra alcuni bidoni di olio della Esso.  Il vento mi ha poi trasportato su un trenino che arrampicava lentamente per tutta la notte fino ai quasi 4000 metri dell’altopiano, riscaldato solo dal calore umano di campesinos che masticavano foglie di coca, oltre ad alcune galline e una capra.

Che emozione l’arrivo all’alba: il blu profondo dell’acqua e quello del cielo che si toccavano. Un lago appena sotto il cielo, questo è il Titicaca.

Un café con leche caliente nella piccola cittadina di Puno e, senza indugiare un momento, ero già su un barchino che collegava le minuscole isole del Titicaca. Avevo fretta di conoscere questo mondo limpido e pulito, rarefatto come l’aria che si respirava.

Dopo aver attraversato lentamente gli isolotti galleggianti degli Uros, gente che vive di pesca su canne di totora intrecciate, il barchino si perse nel blu fino ad arrivare a Taquile, l’isola più conosciuta dove ogni anno si svolge la grande Fiesta del Sol.

Lungo il tragitto Juan, un campesino seduto al mio fianco, mi salutò in quechua e poi, in spagnolo fortunatamente, mi chiese se volevo andare a casa sua, ospite della sua famiglia. Naturalmente ne fui stupito e felice. Così, invece di scendere a Taquile, proseguii insieme a lui verso un’isola più piccola e ancora poco frequentata dai turisti: Amantanì.

Amantanì

L’isola sembrava la cima di un monte roccioso emerso dall’acqua. Semplici casette con il tetto di paglia e lamiera erano sparse qua e là. Piante di eucalipto isolate o a gruppi seguivano i sentieri stretti affiancati da muri di pietra creata da sassi impilati per far spazio a minuscoli appezzamenti di terra dove si coltivavano patate e mais. Tutto attorno il blu del lago contornato in lontananza dalla sagoma di montagne innevate. Un paradiso.

Juan aveva una famiglia stupenda: una moglie, tre figli e due anziani genitori. Incrociai i loro sorrisi che da allora mi accompagnarono per i  mesi seguenti. Mesi che non dimenticherò mai, vissuti esattamente come vivevano loro.

E io non desideravo altro: alzarmi all’alba per zappare la terra, mangiare nel campo patate e mais da intingere nell’argilla, celebrare le feste della comunità, ma anche lottare nella notte contro le pulci che non davano pace, giocare con i piccoli nel recinto degli animali… Intanto le pagine del mio diario si arricchivano di descrizioni e disegni, disegnavo ovunque, anche un enorme pavone colorato sulla parete della mia piccola stanza.

Ma sicuramente la cosa che più mi appassionava erano le esplorazioni. L’isola era piccola e potevo arrivare ovunque. Percorrevo i suoi sentieri da villaggio a villaggio e poi seguivo quelli più impervi che portavano sulla cima sacra del monte: da lì si dominava ogni cosa. Osservavo ogni minimo dettaglio, ascoltavo ogni suono di quella terra, di quella natura straordinariamente in armonia con l’uomo.

Dopo due mesi di mais e patate il mio stomaco però si ribellò e mi trovai a terra a contorcermi dal dolore. L’anziana madre di Juan corse nel campo e in breve tornò con un mazzo di erbe selvatiche: preparò una tisana amara che subito calmò gli spasmi. Ma era venuto il momento di partire.

Il giorno prima della mia partenza mi trovavo sulla cima del monte: volevo abbracciare e ringraziare con lo sguardo e con il cuore quella terra meravigliosa. Trasportato dal vento, cominciai a sentire il suono costante delle quene, delle zampogne e dei tamburi. Uomini e donne vestiti con i colori più belli della festa, in fila indiana, salivano suonando e ballando e cantando dai diversi villaggi per confluire sulla cima del monte sacro dedicato a Pachamama, la Madre Terra. Senza saperlo, mi trovai ad assistere alla festa propiziatoria del buon raccolto in cui, da secoli, si portano doni e rispetto alla Natura, madre di ogni cosa.

Vent’anni dopo mi arrivò una lettera con una foto: il disegno di un enorme pavone colorato. Julio, il figlio più piccolo di Juan, alla morte del padre trovò in un cassetto il mio indirizzo e mi scrisse dicendomi che qualcosa di me era rimasto sull’isola. Gli anni, il tempo, i traslochi mi hanno fatto smarrire quella foto, ma continua ad accompagnarmi il ricordo di quei mesi incredibili in mezzo al lago Titicaca.

volo condor

uaua

condor sogno

I disegni sono di allora, di un me ventenne, circa quarant’anni fa.

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