CAMPUS: Bianco e Nero vs Colore

L’eterno dilemma: quando scegliere la ripresa a colori e quando puntare decisamente sul bianco e nero?

Sappiamo benissimo che questo è un tema difficile e proprio per questo non ci sottraiamo ad alcune considerazioni. Per prima cosa vogliamo chiarire che sicuramente non esiste una scelta giusta e una sbagliata. Le motivazioni che i discepoli delle due fazioni sostengono sono spesso ragionevoli e interessanti. Noi preferiamo dire che dipende dalle situazioni e dal significato dell’immagine.

Proviamo qui ad analizzare le motivazioni più comuni e condivise a proposito delle due opzioni, ben sapendo che non possono essere considerate universalmente valide. Spesso, infatti, sono il prodotto di un vissuto culturale, ogni scelta indotta dall’aver assimilato nel tempo un determinato linguaggio.

Il bianco e nero

Si dice che il b/n aumenti la drammaticità dell’immagine. Questo è sicuramente vero anche perchè la storia della fotografia ci ha tramandato questa sensazione, insieme alla apparenza più colta che l’immagine assume. La grande foto di reportage e la stragrande maggioranza delle immagini capolavoro che tutti abbiamo in mente sono in bianco e nero e come tali le abbiamo amate e ci hanno influenzato. Tutto questo però è da considerare un effetto indotto dalla reiterazione di uno stilema.

Ma cosa c’è di vero, di oggettivo, al di là dell’esperienza ? Proviamo a riflettere. Il bianco e nero aumenta certamente il risalto dell’azione, del soggetto primario dell’immagine, riducendo al minimo le distrazioni che i colori possono indurre. Aggiungiamo che, normalmente, l’editing su queste immagini tende ad essere più marcato. E’ sempre stato così anche con le riprese in pellicola, basti pensare all’uso dei filtri per aumentare i contasti o per modellare le gradazioni dei grigi: ogni filtro schiarisce il suo colore e scurisce il colore complementare. Per non parlare della stampa artigianale in camera oscura che ha sempre offerto al fotografo molte possibilità di creazione e manipolazione dell’immagine anche intervenendo con le dita per togliere luce ai settori più “leggeri” del negativo per aggiungere esposizione ai punti più densi.

Il colore

Quando il colore è protagonista è difficile chiudergli la porta in faccia. La fotografia è spesso emozione e condivisione e questo lato del suo linguaggio si declina con la forza delle sfumature cromatiche. Oggi con l’editing digitale possiamo dirigere il colore come se fosse un’orchestra.  Spesso si dice che la scelta di riprendere a colori esalti la descrizione dei sentimenti. Inoltre il dosaggio del colore ci permette di saturare o dissolvere la potenza del chroma.

Possiamo anche qui riflettere sul colore in relazione al digitale arrivato probabilmente in questi anni alla sua maturità tecnologica. Nell’epoca dell’analogico il colore era spesso di difficile gestione. Come abbiamo spiegato in un’altra lezione di Campus, la temperatura del colore era allora davvero impegnativa da governare. Le pellicole erano tarate sulla temperatura esterna (5.500 gradi kelvin) ed erano poco malleabili in presenza di temperature colore diverse. Oggi il livello del bianco automatico delle fotocamere digitali garantisce una ottimale miscelazione della luce. Inoltre l’editing ci aiuta a ottimizzare il colore, plasmandolo in relazione al nostro progetto estetico.

Un’ultima riflessione, forse per i più esperti, ci può aiutare a essere meno radicali nel dover scegliere tra il bianco e nero e il colore in fase di ripresa. Lavorando in formato non compresso, possiamo rimandare la scelta al momento della post produzione. Infatti il Raw contiene in se stesso sia il bianco e nero sia il colore in tutte le sue sfumature. Lavorate quindi tranquilli e lasciatevi aperte le diverse possibilità.

In questo modo sarà l’evolversi del vostro stile a dipanare la questione, senza necessariamente imitare l’uno o l’altro dei nostri maestri di riferimento.

 

 

 

CAMPUS: Il mosso

Da sempre il mosso è additato come il nemico numero uno del fotografo.

Esistono però numerose contromisure per evitare il mosso non voluto. Anni fa si diceva che il modo più sicuro per avere immagini ferme e nitide è quello di usare un tempo di apertura più veloce della focale che si sta usando. Per esempio lavorando con una focale da 85 mm. si può stare tranquilli impostando tempi di posa uguali o più veloci di un centesimo di secondo. Questo a mano libera.

Se invece puoi usare uno stativo, il pericolo del mosso si riduce di molto riprendendo soggetti statici. Non si elimina completamente, perchè la pressione del dito che scatta induce comunque la fotocamera a vibrare leggermente. Il rimedio a questo dettaglio è l’impostare un breve ritardo di scatto in modo da calmare l’effetto pressione sulla fotocamera. Ovviamente più le focali sono lunghe (in modo più evidente quando si sceglie di usare i teleobbiettivi) più il pericolo di mosso aumenta ed è consigliabile usare tempi molto veloci.  La tecnologia risponde creando sensori sempre più definiti e consentendo di effettuare riprese di qualità a sensibilità elevate impensabili fino a ieri. Questo permette di usare tempi molto veloci e di garantire immagini ferme e nitide.

Ultimo accorgimento che mi sento di consigliare è la postura del fotografo e la giusta respirazione: gambe leggermente divaricate e flesse, lo scatto dopo un respiro. Ricordatevi anche la giusta impugnatura della macchina in modo che aderisca al vostro bulbo oculare con i due gomiti leggermente premuti sul busto.

Queste sono le contromisure tecniche per evitare il mosso non voluto.

E’ doveroso ricordare che il mosso, come lo sfocato, può essere una grande risorsa comunicativa. Basta pensare ai capolavori di alcuni pittori futuristi. Peraltro, l’immagine vibrata e soffusa può conferire all’opera un’atmosfera sognante.

CityLife a Milano

Nell’immagine statica, inoltre, il mosso è di notevole aiuto per dare la sensazione dinamica del movimento.

ballerina di flamenco a Siviglia

In conclusione, quello che consideriamo ‘il pericolo del mosso’ può diventare a volte una risorsa che arricchisce il nostro bagaglio tecnico e comunicativo.

 

 

 

CAMPUS: Gli occhi a fessura

Molto spesso non è semplice riprodurre in una fotografia ciò che percepiamo con lo sguardo. Questo avviene specialmente quando la scena ha forti contrasti e grandi dislivelli di luce. L’esempio più immediato è il tramonto. Lo vediamo così potente e spettacolare, ma nelle nostre immagini non riusciamo a rendere e a condividerne la meraviglia. Sembra che la fotografia non riesca ad abbracciare il tutto, ma che debba scegliere se raccontare il rosso bruciante del cielo o la vegetazione sottostante.

Il motivo è molto semplice.

Lo sguardo non è un apparecchio fotografico. Il meccanismo di visione attraverso i nostri occhi è meraviglioso e complesso, ma non è una singola immagine. Scattiamo davanti alla scena innumerevoli fotografie e le mandiamo al cervello che ci restituisce una visione unitaria del soggetto. Il cervello miscela densità diverse, compensa e pulisce esposizioni opposte tra loro e temperature del colore tanto diverse.

La pellicola o il sensore delle nostre fotocamere non può fare questo e da qui la nostra delusione. In questi casi c’è un sistema infallibile per capire in anticipo se ci troviamo di fronte a una situazione difficilmente riproducibile, in termini tecnici una situazione “fuori dalla gamma di riproducibilità”. Basta strizzare gli occhi  a fessura e dopo alcuni secondi la realtà ci appare simile a quella che possiamo riprodurre in una fotografia. Gli scuri diventeranno illeggibili zone d’ombra e al massimo potremo distinguere le silhouette delle cose e delle persone. Le parti luminose rimarranno evidenti e intensamente colorate.

Questo antico espediente ci salverà dalle delusioni di una foto non riuscita, oppure ci indurrà ad apportare qualche rimedio tecnico perchè si riesca a portare a casa quella difficile ripresa. Ma cosa possiamo fare in queste situazioni?

Quando la fotografia era solo pellicola i rimedi erano pochi. Da un lato la scelta della giusta emulsione fotografica aiutava, dato che le pellicole possono essere più o meno morbide o contrastate e con più o meno capacità di riproduzione della gamma del visibile. In certi casi si può compensare con un colpo di flash le zone più scure del soggetto, esponendo sulle alte luci e riempiendo le ombre con la luce artificiale. Venivano molto usati dei filtri cromogeni che si comportavano come certi occhiali da sole o certi cristalli graduati che si usavano nelle autovetture. La funzione era quella di togliere gradatamente luce alla metà superiore dell’immagine. Addirittura si poteva scegliere se farlo in modo neutro o dando anche colorazione alla scena poichè esistevano filtri cromogeni con dominanti calde o fredde. L’effetto era spesso un po’ pacchiano e artefatto, ma usati bene i filtri risolvevano molte situazioni.

Con il digitale si è arricchito il ventaglio delle possibilità di intervento in queste situazioni. Ora anche gli smartphone offrono la possibilità di usare il cosidetto HDR. Che cosa significa questa sigla? Il termine HDR è l’acronimo di High Dynamic Range e consente di visualizzare una gamma più ricca di colori, bianchi più luminosi e neri molto profondi. In sostanza mentre scattiamo il nostro apparecchio realizza più immagini con esposizioni differenti e automaticamente le miscela in base a un algoritmo di compensazione. Non sbagliamo nel dire che il filtro che imitava gli occhiali da sole sfumati era il papà dell’HDR.

Per i più evoluti e pazienti vi posso consigliare un’ulteriore soluzione, che magari ha il vantaggio di apparire meno smaccata e plateale. Usando un cavalletto, realizzate tre immagini esposte per i diversi toni: i chiari, i medi e gli scuri. Poi a casa con i vostri programmi di editing miscelate a mano i livelli che avete creato. Avete fatto il vostro personale HDR.

CAMPUS: Come e quando usare il flash

Se c’è una cosa meravigliosa delle nuove apparecchiature digitali è il progresso indubbio nella qualità di questa tecnologia nelle riprese con poca luce, usando alte sensibilità ISO.

Questo ci permette di esaltare la luce naturale aggiungendo un grande valore aggiunto al nostro racconto. Poter sfidare la penombra ci aiuta a definire la luce per quello che è valutandola per la sua qualità e non per la sua potenza. Quindi il flash non ci serve più, lo possiamo rottamare? Leggendo quello che segue cercherò di spiegarvi che il flash lo dovete tenere stretto e se mai imparare ad usarlo per migliorare ulteriormente la vostra tecnica. Quante volte avete sentito dire frasi tipo: non mi piacciono le foto con il flash, oppure il flash toglie poesia all’immagine. Bene tutto questo è verissimo a condizione che il flash venga usato male come in effetti si fa nella stragrande maggioranza dei casi.

Ora analizzeremo in che modo il flash possa diventare uno strumento insostituibile.

Non bisognerebbe usare il lampo elettronico in modo diretto. Quasi mai. Quel quasi però è molto importante. Nel controluce una schiarita di flash è fondamentale e risolutiva. Vi permetterà di esporre sulle alte luci posteriori al soggetto schiarendo il primo piano con un lampo di flash ben calibrato. Affinchè la luce naturale e la schiarita siano ben accordate, esse non dovranno risultare della stessa intensità per non uccidere l’idea stessa del controluce, che va rispettato. Esponiamo quindi sul back ground e teniamo leggermente sottoesposto il soggetto della schiarita. avremo immagini drammatiche e sature di grande intensità. Ora possiamo analizzare tutti gli altri casi in cui usare il flash in modo appropriato. In generale la luce del lampo elettronico va addolcita, diffusa. Per fare questo abbiamo due metodi. Il più semplice ed efficace è sparare il flash su una parete laterale chiara o su una tenda in modo che la luce riflessa sia morbida e soft. In oltre avrà un ampio raggio e non sarà concentrata in un solo punto. Anche il soffitto può essere usato come schermo di riflessione, ma attenzione nel caso di soggetti, umani alle brutte ombre che si possono creare sotto gli occhi. Il secondo sistema è quello di avvolgere il flash con un pezzetto di garza o tela bianca anche raddoppiato se il soggetto è vicino al flash. Questo sistema può essere usato anche in presenza di quei piccoli flashini che sono spesso in dotazione delle digitalcamere. Avvolgete quel bulbettino che altrimenti sparerà la sua luce sul soggetto con esito innaturale.

In conclusione: Usate sempre la luce mista miscelando le alte luci naturali con l’intervento del flash. Non comprate apparecchi fotografici troppo automatici ma scegliete quelli che lasciano spazio in certe occasioni alla magica M delle impostazioni manuali.

CAMPUS: La scelta delle ottiche

La lunghezza focale della lente che decidete di usare per una  ripresa influenza e determina notevolmente  il senso stesso dell’immagine.

Le riflessioni che seguono, relative alla scelta della giusta lunghezza focale, sono universali e non importa che apparecchiatura state usando. Sono concetti base sia che usiate la più professionale delle fotocamere, sia se scattiate con il vostro smartphone.

Cercherò di evitare di citare i numeri che determinano le varie lenti, ma piuttosto vorrei darvi opzioni di base che sarete voi a tradurre nella focale che avrete a disposizione. Per semplicità dividiamo le varie lunghezze focali in tre grandi categorie: I GRANDANGOLI, I NORMALI e I TELEOBBIETTIVI.

I Grandangoli  permettono di abbracciare l’inquadratura in un ampio angolo di campo. La loro applicazione principale è universalmente la fotografia di paesaggio specialmente quando vogliamo descrivere un panorama avvolgente. Il mio consiglio è, in questo caso, di avere un soggetto forte in primo piano per dare ancora più personalità alla composizione. L’immagine avrà un sapore colto e autoriale, ma attenzione alla precisione in ripresa. Curate molto la posizione di ripresa per evitare fastidiose deformazioni prospettiche e linee cadenti. Nel ritratto il grandangolo aumenta la drammaticità della scena ed è particolarmente indicato quando si vuole dare importanza alla fisionomia in relazione con l’ambiente. Quanto più la lunghezza focale è corta, maggiore sarà la profondità di campo, anche senza diaframmare eccessivamente.

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I Normali restituiscono normalmente una visione non esasperata delle prospettive e delle distanze. Questa caratteristica conferisce all’immagine credibilità e auterevolezza. Questo equilibrio descrive senza interpretare e conferisce grande eleganza sia nei paesaggi sia nel ritratto. Il viso viene raccontato con garbo senza deformazioni, ma anche senza correzioni prospettiche. L’eventuale sfocatura è dolce e naturale senza strappi.

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I Teleobbiettivi, per contro, restringono drasticamente il campo di ripresa mettendo in evidenza un taglio sofisticato con una prospettiva molto scenografica: i piani tendono ad avvicinarsi dando una sensazione pressante e coinvolgente. Il soggetto si svela come se fosse stato scoperto con una sensazione di intima verità, aumentando il senso di unicità dell’immagine cogliendo l’attimo e valorizzando la scelta autorale. La sfocatura è piacevolmente marcata, specialmente con i diaframmi più aperti. La messa a fuoco accuratissima e la massima nitidezza sono fondamentali. Attenzione al mosso, però, che con le lunghe focali è sempre in agguato. Usate tempi molto veloci anche a costo di aumentare notevolmente la sensibilità.

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Funkhaus a Berlino

Inutile negarlo. Quando si va a Berlino non si riesce a resistere alla tentazione di immaginarsi e respirare quella che è stata la città divisa. Se abbiamo già visto troppe volte il museo del muro o il Check Point Charlie, andiamo a cercare resti del muro che ancora ci permettono di circoscrivere le due zone.

Noi vi suggeriamo una visita alternativa a tutto questo. Un luogo magico e meraviglioso che ti cala nell’immaginario comune sulla vita severa e regimentata della Berlino divisa dal muro.

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L’area in cui sorge la Funkhaus si affaccia sulla Spree ed è un posto assolutamente magico. Era la sede della radio di Stato della DDR. Venne inaugurata nel 1955 e rimase attiva fino quasi alla caduta del muro nel 1990. Alle 23,45 del 2 ottobre 1990 si registrò l’ultima trasmissione che si dice fosse in italiano. Poi, l’attività di 3000 operatori della radio si interruppe come fosse una metafora del regime che si andava sgretolando.

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Era una vera città della Radio di 135.000 metri quadrati, con studi di registrazione edificati con grande sapienza tecnica. L’opera venne affidata all’architetto Franz Ehrlich, all’ingegnere capo Gerhard Probst e all’ingegnere acustico Lothar Keibs.

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Questa équipe di progettisti, estremamente qualificata, riuscì nell’intento di creare studi di elevata qualità con investimenti all’osso, grazie al loro ingegno e alla loro sapienza. Il suono veniva valorizzato e mai stravolto, grazie all’uso di forme e materiali che ne evitavano le distorsioni e ne accentuavano la profondità.

L’edificio contiene sale le cui pareti sono fornite di prismi rotanti rivestiti con diversi materiali, per affinare la ricezione sonora alle diverse esigenze della musica che viene prodotta. Oggi, in quelle stesse sale vengono realizzate registrazioni di orchestre sinfoniche, cori, musica da camera, oltre, naturalmente, jazz e pop.  Pensate che gli studios sono scelti da musicisti del calibro dei Black Eyed Peas e  di Sting.

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E’ possibile effettuare visite guidate per gruppi di un minimo di 10 persone. La visita ha una durata di circa un’ora e mezza. Per 19 Euro a persona (15 per studenti e pensionati).

Il sito vi fornirà tempestive informazioni anche su eventi e concerti.

 

 

Il Tabiat Bridge di Tehran, il ponte di Leila

C’è tanta cultura, tanto sogno, tanta immaginazione e coraggio in questo ponte innovativo il cui nome significa Natura e che collega due polmoni verdi (Abo-Atash e Taleghani Park), saltando con i suoi 270 metri un’arteria di grande comunicazione immancabilmente super trafficata.

Opera della giovane architetta Leila Araghian, quando ancora era 25enne, il progetto concepisce il ponte come luogo della vita e della socialità, oltre che naturalmente dell’unione e del confronto.

Non volevo fosse solo un ponte  di passaggio tra un parco e l’altro. Volevo che fosse un luogo dove la gente potesse sostare e riflettere.

Gli abitanti di Tehran lo vivono con entusiasmo grazie ai bar e ai ristoranti che trovano spazio nei tre piani di cui si compone, ma anche per merito della vista sulla metropoli e sui monti circostanti, delle comode panchine, opere di artisti, tutte diverse l’una dall’altra, e delle confortevoli pavimentazioni in legno. Oltre a numerosi gruppi di giovani amici, si vedono intere famiglie, con nonni e bambini, stendere una coperta per terra e fare un pic-nic (ordinatissimo, come abbiamo osservato ovunque), di giorno ma anche fino a tarda ora.

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Il dato più sorprendente, e che deve farci riflettere sulla complessa e contradditoria società iraniana, è la fiducia che è stata data a una professionista così giovane e per giunta donna. Leila Araghian vive in Canada, ma la possiamo senz’altro considerare rappresentante emblematica di quell’universo femminile che abbiamo riconosciuto anche nei nostri incontri come la parte più avanzata e consapevole del processo di modernizzazione. Il fatto che viva e lavori all’estero è il frutto delle sanzioni all’Iran: nonostante forse vincitrice di diversi premi, per anni non ha potuto partecipare a concorsi internazionali perche architetta iraniana.

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Il Tabiat Bridge si può raggiungere in taxi, naturalmente, oppure con il metro scendendo alla fermata Shahid Haqqani, per poi fare una breve passeggiata nel parco.

Come potete osservare anche da queste foto, il ponte dà il suo meglio nelle ore notturne, le più apprezzate anche dagli abitanti della capitale. E dalle turiste italiane 😉 La popolazione di Tehran è infatti molto legata a questo luogo e lo mostra con fierezza ai visitatori.

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Tehran Parkour

Avevo sentito parlare già prima di partire dei ragazzi del parkour di Tehran. Poi è stato un taxista colto, adorabile e depresso che mi ha indirizzato nella palestra urbana della metropoli, a Ekbatan.

Questo è il nome del grande quartiere residenziale progettato nel 1975 sul finire dell’era dello Scià con ingenti investimenti, un’opera che presenta grandi spunti di modernità e di innovazione.

In effetti, passeggiando tra le sue strade, il quartiere mi ricorda l’architettura sociale di cui abbiamo esempi anche a Milano, per esempio nel Quartiere Gallaratese a firma del grande maestro Carlo Aymonino in collaborazione con Aldo Rossi. Una modernissima concezione di edilizia popolare con spazi comuni destinati alla socialità e all’autosufficienza commerciale.

Nel 1979 la Repubblica Islamica nazionalizza le imprese costruttrici e porta a termine il progetto.

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Proprio qui ha sede il quartier generale degli atleti un po’ anarchici del parkour. Un altopiano di sabbia con tanti attrezzi costruiti dai ragazzi per i loro allenamenti. Una collina da cui si domina il quartiere, una casetta, in realtà una piccola baracca costruita con legni  diversi, che però stupisce per la cura e il senso estetico, dove si tengono le riunioni del gruppo.

I ragazzi mi accolgono come un ospite di riguardo, gentilissimi a dispetto del loro apparire rudi ed estremi. Si esibiscono per me, volteggiano agili e motivati, ne intuisco i leader, istruttori riconosciuti.

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“Quando pratichiamo il parkour rafforziamo la fiducia in noi stessi.” spiega Mohammad, “Qui nessuno impone nulla: è la bellezza della libertà che troviamo nel superare i limiti del pensiero. La città è il nostro luogo, gli ostacoli sono i trampolini, quando ti muovi connetti orizzonti diversi e te ne appropri.”

Ancora una volta non posso non pensare alla simbologia, alla metafora che in tutta evidenza ci parla di loro, di noi, di tutti. Ancora una volta sono le isole, gli arcipelaghi, i microcosmi di questa metropoli che si manifestano.

Parlando con questi ragazzi  si nota subito che non è il culto del corpo o l’edonismo la loro motivazione, ma semmai la ricerca della libertà e l’appropriazione in prima persona dello spazio comune.

La loro è una comunità in cui tutti sono interconnessi con i vari social. Sono in contatto con i loro simili di altre zone del mondo, per esempio con i ragazzi di Kabul che praticano il parkour sulle macerie della guerra. Mi mostrano le immagini di detriti usate come palestra: è come se l’energia vitale soffiasse via la morte sociale, la condanna cosmica della guerra.

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Ormai è sera, il buio avvolge la collina, altre sagome si uniscono al gruppo. Felpe più pesanti racchiudono i segreti dei partecipanti: anche la componente femminile pratica questo sport, naturalmente in modo clandestino. Le loro montagne da scalare sono ancora più alte, ma questo non è un problema, solo uno stimolo in più.

Ci lasciamo con grandi abbracci e con la promessa di tenerci in contatto. Spiriti liberi, avete la mia solidarietà e la mia amicizia: il genere umano è davvero meraviglioso.

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CAMPUS: La temperatura del colore

I nostri occhi sono dei meravigliosi fantastici IMBROGLIONI. Sì, avete capito bene il nostro sguardo è filtrato e influenzato dalle nostre esperienze, dal nostro cervello. Guardando una scena siamo portati a pensare che la luce sia sempre bianca e “pulita” e i contrasti sempre leggibili in tutta la gamma, dall’estremo chiarore allo scuro più intenso.

Non è così per la fotografia. La riproduzione dei colori e l’influenza della dominante sono date principalmente dalla temperatura del colore che si può misurare in gradi Kelvin. Ad esempio, la temperatura della luce diurna (daylight) è di 5.500°K mentre quella di una lampadina al filamento di tungsteno è di 3.200 °K.

Le luci calde dell’alba e del tramonto sono intorno intorno ai 2.800°K. nelle zone illuminate dal sole e, al contrario, sono molto fredde nelle zone d’ombra, arrivando anche a 11.000 °K.

La macchina fotografica non ha esperienze e non può filtrare tutto attraverso il cervello. Però può avere, nel caso delle digitali, degli algoritmi, dei software, che implementano queste ed altre conoscenze.

Torniamo per un attimo all’occhio “imbroglione”. Si è detto che se guardiamo una scena illuminata da una luce calda il vostro sguardo fltra questa luce carica di dominanti giallo-rosse fino a farci apparire la gamma dei colori visibili puliti. Se però all’interno della scena c’è un termine di paragone opposto, per esempio una seconda luce con diversa temperatura colore, ecco che il nostro sguardo viene costretto a descriverci le due luci come diverse tra loro e portatrici di differenti dominante colore.

Un esempio ci aiuta a chiarire meglio il concetto. Siamo all’imbrunire di una limpida giornata; il sole è calato e stiamo osservando una casa di campagna illuminata dall’interno dalla luce di una lampadina. Tutto il paesaggio risulta intensamente blu ma l’interno della casa ha una luce caldissima, ricca di giallo. Proviamo ad aspettare qualche minuto e la luce dell’imbrunire lascia spazio al nero della notte. La stessa stanza illuminata dalla fioca lampadina ci apparirà ora illuminata normalmente, non più così smaccatamente gialla. Conclusione: l’occhio percepisce la differenza solo in presenza di fonti luminose con opposte temperature colore.

Abbiamo detto però che le fotocamere digitali hanno normalmente degli algoritmi che possono regolare la ripresa tenendo conto delle diverse temperature colore.  Esiste sempre la funzione AWB (automatic white balance) che rileva automaticamente la media delle temperature colore presenti nella scena. Nelle migliori fotocamere il range coperto è tra i 2.800°K e i 10.000°K.

Se si desidera maggiore precisione si consiglia di usare la funzione “white balance personalizzato”. Consiste nell’inquadrare una superfice sicuramente bianca, scattare una foto, e seguire la procedura di individuazione della corretta filtratura per ottenere la migliore resa cromatica possibile.

Infine due raccomandazioni. Tenete sempre conto che i limiti possono diventare preziose opportunità: per la fotografia creativa le dominanti sono impagabili spunti. Secondo, scattando in Raw con gli apparecchi che lo consentono, potrete applicare la più consona delle filtrature in fase di editing.

CAMPUS: Tempi & Diaframmi

Potremmo considerare questa la prima lezione. Partiamo da appunti dedicati a chi ha scarse conoscenze della materia. Questo non esclude il fatto che un po’ di ripasso possa essere utile a tutti quanti.

La corretta esposizione e la profondità di campo

Si tratta di trovare il giusto dosaggio della luce che va a impressionare la pellicola, nel caso di una macchina fotografica analogica, oppure un sensore, nel caso di una camera digitale.  Questa sensibilità che si misura in ISO.

  • Il giusto dosaggio è dato dal rapporto esistente tra il diaframma e il tempo di apertura dell’otturatore.

Ovviamente, più il diaframma è aperto e più luce passa da questa apertura.
Al contrario, più il diaframma è chiuso meno luce passerà.  Per compensare, i tempi di otturazione dovranno perciò essere più lunghi.

  • Ad ogni chiusura di diaframma deve corrispondere il raddoppio della durata dei tempi di scatto.
  • Viceversa, un’apertura di diaframma permette di dimezzare il tempo.

 

diaframmi

Questa regola basilare è il fondamento numero uno dell’intervento creativo nel realizzare una immagine.
Perché ha a che fare con la profondità di campo che altro non è che la porzione di spazio a fuoco all’interno della composizione.

  • Se voglio ritrarre una soggetto astraendolo dallo sfondo, che desidero sfuocato il più possibile, userò un diaframma molto aperto.

Specialmente con le focali più lunghe, questo mi restituirà la massima attenzione sul soggetto e uno sfondo indefinito fatto di toni sfumati e oggetti irriconoscibili. Al contrario

  • se desidero la massima nitidezza su tutta l’inquadratura sceglierò un diaframma molto chiuso.

Ora vi beccate l’esempio del buco della serratura. Di solito lo racconto ai bimbi, ma è molto utile a tutti, credetemi.

Chiudete gli occhi e immaginate. Siete in una stanza buia. C’è di fronte a voi una porta con il foro della serratura molto, molto stretto.
Da quello passa un filo di luce, sì proprio un filo quasi una retta. I punti di fuoco si incontrano sulla retta e procedono per lunghi tratti insieme.

  • Questo è il diaframma più chiuso, che crea grande profondità di campo, cioè una grande porzione di immagine a fuoco.

Immaginate ora un foro della serratura grandissimo. Da quello entra tantissima luce nella nostra stanza buia. I punti di fuoco si incontrano e presto si divaricano.

  • Questo è il diaframma più aperto, che ha un punto a fuoco e il resto sfuocato.

Conclusione: l’immagine perfetta nasce dal giusto dosaggio della luce e dalla scelta di regia per quello che riguarda la profondità di campo (fuoco e sfocatura).

Se lo volete decidere voi tutto ciò, dovrete lavorerete in manuale. Ma, se preferite, ci sono automatismi che hanno implementato questa ed altre regole.